La Storia dell'Ovovia del Belvedere

C’era una volta un paese tra le montagne; un paese orgoglioso, presuntuoso e ambizioso. C’erano uomini e donne selvatici ma curiosi e soprattutto fieri di essersi affrancati dalla servitù. C’era e c’è Alagna
, negli anni 50 del 1900, nel paesello sospeso tra le montagne, fu costruita un’ovovia per dare sprint all’albergo Belvedere, imponente struttura appoggiata sul Belvedere di Otro, pubblicizzato come punto tappa per la salita alla Capanna Margherita; un progetto temerario, primo passo verso il sogno di raggiungere il Monte Rosa con gli impianti, che avrebbe fatto poi la fortuna di Alagna.
 L’albergo fu costruito agli inizi del ’900 dalla famiglia Igonetti. La sua costruzione gettò la famiglia in cattive acque e l’albergo fu ceduto alla famiglia Grober che lo terminò e lo avviò. Aperto nel periodo estivo, già nel dopoguerra era attivo e conosciuto. Nel marzo del '45 si festeggiò il matrimonio di Joccu Chiara, nel '46 Adriano Fuselli partecipò a un campo scout e ballò nell’albergo tutta la notte. Posto a 1890 m di quota, con vista spettacolare sul paese e sul monte Rosa, aveva 28 camere con acqua corrente, un bar, una sala da pranzo, una sala privata detta “stanza dei camosci” dove era collocata la televisione e una sala “turistica” dove potevano mangiare i visitatori giornalieri. L’albergo era dotato di corrente elettrica, telefono, aveva un medico presente e proponeva passeggiate, escursioni, bagni di sole e cura lattea.
Con la costruzione dell’ovovia, l’albergo fiorì e condusse  per mano Alagna nella rottura col suo passato di enclave Walser durato 700 anni, verso un futuro di funivie, businnes e speculazioni edilizie.

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Davvero i Walser avrebbero rinunciato così facilmente alla Walserfreiheit? O lo spirito di Antonio Zanoltis dictus Grober, di Enrigetus de Pe de Myot, di Heinz Antonius avrebbero punito i discendenti infedeli?L’albergo Belvedere si affacciò fiorente al 1970, ma il 2 luglio bruciò per un corto circuito. Erano passati 20 anni esatti dall’inaugurazione della funivia avvenuta il 2 luglio 1950. Problemi all’impianto elettrico si erano già verificati la settimana precedente il fatto, tant’è che in albergo era presente il Bertulla, falegname di Roccapietra, che stava riparando i danni ad un bagno che si era incendiato. Non ci fu nulla da fare per l’albergo in fiamme, al Belvedere non c’è acqua e la cisterna che lo riforniva, terminò in fretta. Nelle vicinanze della costruzione non ci sono torrenti e l’acqua, pompata dalla frazione Dorf con 2 pompe elettriche fu del tutto insufficiente per fermare l’incendio. L’anno dopo, raccolti i resti bruciati in un grande terrapieno, prima che la stagione estiva ripartisse, si costruì in velocità un ristorante prefabbricato, gestito da Piero Tapella. Inaugurato venerdì 17 luglio 1971 con presagi infausti- la data innanzitutto, il vento che scuoteva l’edificio e la mamma del Tapella che cadde nella sala da pranzo pronta per il pranzo inaugurale, lussandosi un dito-, chiuderà definitivamente 13 giorni dopo. L’edificio si sfondò poi nell’inverno dell’anno successivo, il nevoso 1972, sotto il peso delle abbondantissime nevicate, probabilmente perché, nella fretta di terminare la costruzione, le capriate del tetto erano state montate al contrario e per consentire il passaggio dei tubi del riscaldamento si rese necessario fare dei tagli in alcune di esse. Con la costruzione dell’ovovia, il Belvedere perse come priorità la stagione estiva e si avviò a diventare il centro di una rinomata stazione sciistica. Furono costruiti 4 impianti di risalita: un seggiovia monoposto che collegava la frazione Feglierc con il Belvedere, uno skilift che dal Belvedere saliva verso il Torru, uno in direzione di Suna, che fu però quasi subito travolto da una valanga e una manovia che, poco dopo la frazione Follu, saliva in direzione della Scarpia. Otro divenne in fretta una stazione fiorente, innovativa e in crescita; furono tracciate e ripulite le piste, che erano battute con gli sci da squadre di ragazzi di Alagna, Enrico Chiara aprì un noleggio di sci, nacque la scuola di sci, arrivò il primo gatto delle nevi, un Lamborghini che pare non abbia quasi mai funzionato. Le piste furono allargate e spianate dall’impresa Chiara, si chiamarono tecnici esperti per la progettazione e la stazione decollò. Il Biel, pista che dal Belvedere scendeva in direzione di Follu, la Seghi, così chiamata in onore di Celina Seghi, campionessa olimpica, bronzo ai mondiali di Aspen del 1959, che la aveva inaugurata, la Dagardo, che scendeva sotto il Belvedere in direzione di Feglierec e la Camoscetta con la sua variante, che scendevano ad Alagna diventano piste moderne e parco dei divertimenti di una generazione post bellica che voleva ritrovare l’allegria che guerra aveva rubato. I walser erano un passato lontano quasi dimenticato, ma non per tutti.Racconta Giorgio Enzio, classe 1939, che per i ragazzi di Alagna non era abituale poter sciare a Otro per via dei costi proibitivi, anche se c’erano tessere per i residenti a prezzo ridotto e quindi molti partecipavano alla battitura delle piste per poter usufruire gratuitamente della stazione.  Un gioco che li appassionava era la discesa dal Belvedere in velocità, cercando di arrivare in paese prima che gli ovetti avessero compiuto un giro completo. Considerato che gli ovetti viaggiavano alla velocità di 3 m al secondo e il dislivello Alagna Belvedere era di 600 metri, si trattava davvero di tempi da record. Alagna e gli alagnesi furono catapultati nel business degli sport invernali. Si modificò l’assetto urbano del centro e lentamente anche l’economia. Il primo passo fu la costruzione della piazza antistante la stazione di valle, oggi piazza Regina Margherita. Il 16 febbraio 1950 Enrico Grober, proprietario della funivia, scriveva a Pietro Smitt, domiciliato a Lione in Francia, proprietario della villa oggi chiamata Casa Smitt per chiedere di acquistare il prato sul lato destro della casa per creare un piazzale per l’ovovia, indispensabile per il buon funzionamento dell’impianto. Mancavano 4 mesi all’inaugurazione, e la trattativa era solo all’inizio. Lo Smitt non rispose subito e l’allora sindaco Giuseppe Giordano avviò un atto di esproprio nei confronti dello Smitt, che lo indusse a vendere al Grober. Il primo luglio la piazza era pronta.Ma non tutti gli alagnesi erano contenti, i discendenti dei Walser guardavano ormai con ostilità alla famiglia Grober, proprietaria della funivia. Alagnesi di antica tradizione, i Grober, arricchitisi alberghiero e manifatturiero si erano allontanati dalla componente sociale agricolo pastorale da cui provenivano.  E l’invidia o forse la paura del cambiamento, di certo la fede in una tradizione secolare, mosse la critica e si  cominciò a sussurrare di guadagni illeciti, di usura, di atteggiamenti dispotici e vessatori. Non piacque per nulla ai discendenti dei coloni del Vallese, che la funivia fosse costruita sull’area dove la tradizione ricordava essere stato il primo cimitero della comunità.I walser, a partire dalla fine del 1200 avevano fondato sul territorio alagnese piccoli centri urbani autosufficienti, dotati di mulino, fontana, forno per il pane e spesso oratorio. Questi oratori erano semplici cappelle dove le funzioni venivano celebrate occasionalmente. Alagna ebbe però la sua chiesa e il suo parroco solo nel 1475. Prima di quell’anno, la cappella di Pedelegno, di cui ancora oggi si conserva il portone d’ingresso, veniva utilizzata per le messe del parroco incaricato in trasferta, e nei suoi pressi c’era il cimitero. La memoria di questo antico cimitero si perde nel tempo e dell’antica Chiesa si sa solo che nel 1414 esisteva, ma la memoria collettiva negli anni ’50 conservava ancora il sentore della sacralità del luogo. Nonostante il tabù sociale, i Grober costruirono comunque su quel luogo la loro ovovia, ignorando il malessere della della comunità.Nel 1965, il 1 maggio si inaugurarono gli impianti di punta Indren, ma l’ovovia continuava a fare numeri e la stazione di Otro era un centro mondano conosciuto e ambito. La storia si interruppe bruscamente il 1 agosto 1971 alle 10.30, in un tragico incidente in cui persero la vita Alessandro e Marina Ardizzola di 16 e 12 anni, Francesco Ducci di 29 e la moglie Maria Luisa Ponzano di 31. Erano passati 20 anni esatti dalla messa in funzione dell’impianto avvenuta il 1 agosto 1971 alle 10.30. La cabina 8, che trasportava i ragazzi Ardizzola, giunta alla parete del genepì, tra l’ottavo e il nono pilone, incominciò a scivolare sulla fune. Le bronzine che si trovavano all’interno della morsa che agganciava la cabina alla fune, si consumarono per la frizione e l’accelerazione aumentò progressivamente, portando la cabina 8 a schiantarsi contro la 9 con un impatto fortissimo. La cabina 7 (su cui viaggiavano i genitori dei ragazzi Ardizzola, che assistettero impotenti al disastro) e 10 (su cui viaggiano Ivano Montresor e Angela Brocca) trascinate dalla fune sollevata dall’onda prodotta dall’impatto delle due cabine precedenti, furono spinte quasi a terra e quindi riportate in alto per giungere tra gli scossoni in stazione. La caduta della fune all’esterno delle rulliere fu la salvezza per gli occupanti della cabina 10, perché se l’onda avesse spinto la fune sul braccio del pilone, la fune avrebbe cominciato a incidere il braccio e la  cabina si sarebbe incastrata contro il pilone per scivolare poi a valle quando la consunzione delle bronzine lo avrebbe permesso.In entrambe le stazioni, quella di valle dove c’erano Luciano Enzio, veterano dell’impianto e Felice Vannetti secondo la Stampa, Luciano Guala secondo i racconti della gente di Alagna, e in quella di monte dove c’erano Augusto Antonietti e Giovanni Bendotti nessuno si accorse dell’accaduto, poiché la fune, sollevatasi ben oltre le previsioni, non spezzò il filo di sicurezza, che stava nelle rulliere ma uscì di sede e cadde fuori dal pilone. Arrivati in stazione i sopravvissuti e appresa la notizia dell’incidente, Augusto Antonietti si precipitò sul luogo del disastro. I signori Ardizzola furono accompagnati a piedi ad Alagna da Piero Tapella e sistemati in albergo e sedati, in attesa di poter procedere al riconoscimento dei corpi dei figli. Da Alagna saliva invece Claudio Enzio, allora 17enne che era stato mandato dal padre che, inconsapevole della gravità dei fatti, immaginava si fosse prodotto un guasto all’impianto del telefono, perché non riusciva a comunicare con la stazione di monte. Giunto all’ottavo pilone Claudio si trovò davanti il disastro, nel mentre lo raggiungeva da monte Augusto Antonietti che lo aiutò a piazzare il telefono per comunicare l’accaduto. L’area venne chiusa, arrivarono le forze dell’ordine, furono messe sotto sequestro le parti meccaniche coinvolte e nel pomeriggio una squadra di soccorritori poté provvedere al recupero delle salme, in una giornata caldissima con temperature fuori dalla media stagionale. L’area fu presidiata per i 20 giorni successivi, si montò una tenda dove i dipendenti dell’ovovia a turno giorno sorvegliarono la zona, in attesa che l’area fosse dissequestrata. Racconta Ivano Montresor 40 anni dopo: Angela ed io, 22 anni lei, 24 io, su consiglio di un collega di lavoro ci recammo quel giorno ad Alagna, tra l’altro era la prima volta che ci andavamo, per salire al Belvedere e trascorrere una bella domenica e cominciare ad assaporare il gusto delle vacanze che sarebbero iniziate la settimana seguente. Appena giunti ad Alagna, ci recammo alla stazione di risalita dell’ovovia del Belvedere. Già alla prima vista dell’impianto rimanemmo un tantino  perplessi in quanto l’impianto si presentava ai nostri occhi vecchiotto e ci ricordava una giostra da luna park. La prima esclamazione di Angela giunti in stazione fu: io su quel catorcio non ci salgo, seguì da parte mia opera di convincimento, ma dai, cosa vuoi che succeda, funziona da vent’anni e non è mai successo nulla, e poi cosa facciamo, ritorniamo a casa nella torrida Milano? ormai  siamo qui e non vedo perché non dovremmo salire: questa sua esitazione ci salvò la vita….!!!! Infatti nel frattempo che noi si discuteva, una coppia di giovani sposi ci passò davanti alla biglietteria e prese la cabina che avremmo dovuto prendere noi. Dopo qualche insistenza Angela si convinse e salimmo anche noi sulla cabina che seguiva. Non dico la paura di Angela durante la risalita, era terrorizzata, io invece ero tranquillo e le dicevo: guarda che bel panorama, dai non fare la sciocca, lei guardava il fondo della cabina e non aveva il coraggio di alzare lo sguardo. Giunti penso oltre la metà del percorso di risalita, all’improvviso sentimmo dei forti scossoni, Angela cadde in avanti e sbatté un ginocchio contro la cabina, mettendosi ad urlare: ma cosa sta succedendo?? a quel punto venni preso dal panico pure io, infatti la cabina cominciò ad abbassarsi e finì per sbattere  contro i rami degli alberi per poi venire nuovamente sollevata e, strisciando sulle rocce andò a sbattere contro un pilone. A quel punto realizzai che qualcosa di tragico stava succedendo, guardai verso il basso e vidi i rottami delle cabine precipitate sotto di noi ed un corpo riverso sull’erba; furono istanti terribili che non potrò mai rimuovere dalla mia memoria, intanto la cabina dondolando a destra e a manca finalmente giunse alla stazione a monte. Qui ci fu una scena straziante: i genitori dei ragazzini che volevano scendere dal dirupo per raggiungere i figli precipitati gridando i miei figli, i miei figli, i due addetti all’impianto rimasero sgomenti e non avevano ancora realizzato che era successa la disgrazia, dopo qualche attimo di smarrimento, contati i numeri delle cabine esclamarono: Dio mio sono cadute due cabine, presero in mano il telefono e girando vorticosamente la manovella dissero alla stazione a valle: fermate tutto, è successa una tragedia. Troppo  tardi per poter fare qualcosa, con la forza trattenemmo i genitori disperati che ancora volevano raggiungere i figli e con l’aiuto del proprietario del ristorante Belvedere, il quale mettendosi le mani nei capelli esclamò: sono rovinato..!! ci incamminammo per raggiungere Alagna con i genitori che a stento riuscivano a camminare straziati dal dolore. Giunti ad Alagna vedemmo qualche centinaio di persone sul piazzale, che armati di binocoli guardavano verso la montagna, e fu lì che ci diedero la notizia che i quattro occupanti le due cabine precipitate erano tutti deceduti, a questo punto fummo trasferiti alla caserma dei carabinieri in qualità di testimoni dell’accaduto dove rilasciammo la nostra testimonianza. Per fortuna siamo qui a raccontare la nostra triste esperienza, ci volle parecchio tempo per rimuovere dalla nostra mente questo tragico accaduto, Angela non prese mai più un mezzo di risalita e per quasi 30 anni non volò, solo da qualche anno ha ripreso a volare dopo aver frequentato un corso Alitalia “Paura di volare”. L’ipotesi più riferita sulla causa del disastro fu che la cabina 8 fosse stata agganciata sull’impalmatura della fune, che nei 14 metri in cui viene intrecciata per unirla, risulta avere un diametro leggermente più grande. Questa ipotesi però non è mai stata certificata dall’inchiesta seguita alla sciagura. Molto più probabilmente si trattò di una torsione della fune, come riferisce Claudio Enzio, cresciuto “dentro la funivia” perché figlio del caposervizio Luciano Enzio. Nel 1970 la fune era stata controllata ed era risultata idonea in quanto non presentava rotture dei cavi componenti, tuttavia era noto a tutti che si fosse assottigliata (era stata già tagliata a seguito dell’allungamento fisiologico) ma soprattutto che fosse molto “nervosa”. L’ammorsamento su un punto di torsione della fune, non potendo sfogare la forza sulla cabina che pesava molto, provocava un piccolo slittamento della cabina sulla fune con un caratteristico rumore che era noto gli operatori ma che purtroppo passò inosservato. Lo slittamento avvenuto sulla massima pendenza fu fatale perché l’accelerazione massima dovuta alla pendenza, aumentando la forza con cui la cabina scivolò, avviò la consunzione delle bronzine e il conseguente schianto. L’ovovia era senza dubbio un impianto d’avanguardia, innovativo e moderno per i tempi ma comunque primitivo. Già dopo 5 anni di funzionamento si rese necessario cambiare la maggior parte dei piloni poiché appariva sempre più evidente che non erano in asse e non garantivano una distanza uniforme del cavo portante da terra. Così molti piloni furono tolti e molti plinti rifatti. Claudio Enzio ricorda che i piloni erano accatastati davanti alla casa parrocchiale e ai bambini di Alagna piaceva giocare tra quei rottami. L’ammorsamento automatico delle cabine avveniva tramite una rampa di lancio di circa 10 metri avviata da un motore elettrico (e in caso di black out da un motore a scoppio Lancia). Le cabine, spinte alla velocità di 3 metri al secondo, si agganciavano alla fune con una morsa azionata da due molle. L’aggancio era sempre un terno al lotto perché le cabine raggiungevano la velocità di 3 metri al secondo raramente perché l’accelerazione, condizionata dal peso della cabina, era evidentemente variabile. La distanza tra una cabina e l’altra era calcolata in modo empirico; l’operatore che faceva partire le cabine guardava nell’oblò di destra sulla parte lignea della facciata della stazione, che inquadrava il pilone di fum Shally e quando una cabina raggiungeva quel punto, faceva partire quella successiva. L’impianto aveva 16 cabine, di cui 8 venivano tenute a valle e 8 a monte. Aveva una portata oraria di 110 persone e il record lo raggiunse con l’affluenza di 980 persone (sono praticamente 12 ore di funzionamento ininterrotto!). Anche l’arrivo a monte era difficile perché le cabine in velocità costante venivano spostate su un binario morto e decelerate a mano. Il compito di prenderle e decelerale era affidato oltre che agli operatori, ai ragazzini del paese cui pare piacesse molto il gioco. Insomma un impianto funiviario agli esordi con il fascino e le pecche di un primo modello.Il primo agosto 1971 per l’impianto pioniere di Otro il tempo si è fermato e ancora oggi a distanza di quasi 41 anni la cabine 7 e 10 sono li, appese, in attesa di essere spostate sul binario morto, come dopo ogni arrivo normale, le cabine 8 e 9 sono ancora a terra, accartocciate nel bosco, le cartoline e le immagini sono diventate difficili da trovare e la storia si affievolisce nella memoria di chi l’ha vissuta, in attesa che il tempo la cancelli.

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